c&c local tourism farm
Creazioni Culinarie
c&c local tourism farm
Le nostre creazioni culinarie
Attraverso le creazioni culinarie, il nostro ospite verrà immerso in un vortice di suoni, odori, sapori, storie, procedimenti e significati originali e antichi. Le nostre creazioni culinarie, così come tutte le degustazioni, utilizzano rigorosamente prodotti del territorio, spesso dalla valenza etica e solidale. In particolare, le farine di grani siciliani antichi sono autoctone, coltivate nel territorio milenese e molite a pietra.
La misteriosa composizione della ‘mbriulata di Milocca
L’origine della ‘mbriulata è incerta e controversa, correnti di pensiero propendono per la sua origine araba, altri per quella ebraica (entrambe con nessun valido fondamento), per questo sono incerti sia l’origine del nome, sia il suo reale significato. Probabilmente, la parola ‘mbriulata potrebbe stare per ’mbrugliata (“imbrogliata”) forse per la varietà degli ingredienti e per la sua particolare forma arrotolata.
La creazione della ‘mbriulata rappresenta, oltre che un importante processo sociale all’interno del sacro sistema famiglia, un affascinante rituale umano che intreccia, ricamandone i significati, tradizione, esperienza, religione e pure un leggero tocco di magia. Tutta la famiglia partecipava a questo processo: dagli uomini che si prendevano cura ed erano i garanti della creazione degli ingredienti sino ai più piccoli che partecipavano ad alcune fasi con il solito spirito di gioiosa serietà che hanno i bambini vedendo in tutto un gioco.
La preparazione, dalla tradizione alla Sagra
Tutte le fasi della realizzazione della ‘mbriulata rappresentano, e ne sono un pò metafora, il funzionamento del particolare sistema della Robba (una sorta di villaggio) che unicamente caratterizzava urbanisticamente l’antica Milocca (originario nome dell’attuale Milena). Era un assetto, dai particolari risvolti sociali ed antropologici, unico! La casa e l’orto erano il cuore pulsante del sistema socio-antropologico, urbanistico e, insieme alle tipiche costruzioni in gesso, anche architettonico che unicamente caratterizzava Milocca, il paese delle Robbe.
Intanto, tutti gli ingredienti provenivano dall’orto familiare e, come spesso ancora oggi accade in una società con un’origine e una forte identità contadina come quella milocchese, sarebbe impensabile comprare prodotti come olio, farina, vino, frutta, ortaggi ecc., cose che ogni famiglia produceva, e tutt’oggi molte ancora producono, in maniera autonoma e propria mantenendo invariate tradizioni e metodi molto antichi. Prima di tutto si preparavano gli ingredienti affinché fossero già freddi al momento della farcitura così che, durante l’assemblaggio, potessero venire facilmente toccati con le mani. In una padella, con l’olio di produzione familiare, venivano fatte soffriggere delle cipolle affettate grossolanamente alle quali, per uniformare la cottura, venivano successivamente aggiunte delle patate tagliate a dadini.
Nel mentre venivano snocciolate delle olive nere, prodotto della conserva realizzata ogni novembre. Come a tutti gli eventi della civiltà contadina, anche a quelli che avvenivano attorno alla cucina, partecipava tutta la famiglia, a vari livelli e ognuno a suo modo. Per questo, per esempio, lo snocciolamento delle olive era solitamente affidato ai più piccoli mentre le operazioni più delicate erano nelle mani delle donne anziane, più sagge. Nel mentre si grattugiava il pecorino, frutto di un baratto con il pastore, immancabile in ogni Robba, al quale si concedeva, in cambio, lo sfruttamento dei propri campi a maggese per il pascolo degli animali. Tutto faceva parte dello stesso sistema dal funzionamento non ufficialmente codificato ma perfettamente funzionante. Adesso si poteva passare alla preparazione dell’impasto. Utilizzando un piano di legno chiamato “scanaturi”, la farina di grano duro veniva posta a fontanella. Nel cuore della fontanella veniva sciolto, in acqua tiepida, “lu criscenti” (lievito madre, letteralmente “colui che fa crescere, lievitare”, derivante dalla produzione in casa del pane che avveniva due volte a settimana in estate e ogni quindici giorni in inverno) insieme ad un pizzico di sale e due cucchiai d’olio al fine di ammorbidire l’impasto. La pasta veniva inizialmente mescolata grossolanamente aggiungendo man mano altra acqua fin quando l’impasto non raggiungeva la consistenza desiderata. L’indicazione era comunque “più s’impasta meglio è”. L’impasto veniva ripetutamente sbattuto con forza sullo “scanaturi”, quello dello sbattere per attivare la lievitazione era considerato quasi un atto magico del quale si sconosceva totalmente la motivazione scientifica ed era quindi un atto ormai appartenente ad un rituale e che era stato acquisito con l’esperienza e con la saggezza donata dagli anni. Quando l’impasto era diventato compatto veniva diviso in una serie di panetti e, su ognuno, veniva incisa una croce che, oltre ad essere una benedizione dal significato religioso per la buona riuscita, rappresentava anche un pratico segreto per controllare la lievitazione; la scomparsa dell’incisione a forma di croce rappresentava l’avvenuta lievitazione.
Durante la lievitazione i panetti venivano avvolti in un panno di lino ed adagiati sul letto sotto di una coperta
Anche la coltivazione del lino, la raccolta, il lavaggio dei fili lasciati a bagno nei fiumi e la lavorazione dei panni da parte delle donne con il telaio in legno rappresentano l’ennesimo processo socio-antropologico e culturale che perfettamente s’incastrava nel sistema puro e perfetto, ormai perso e quasi dimenticato, del funzionamento delle Robbe, questi antichi nuclei, sorta di villaggi, che formavano l’antica Milocca. Durante l’affascinante magia della lievitazione si “famiava” il tipico forno a cupola in gesso, pezzo immancabile nell’arredo di ogni casa (tutto, come la casa stessa, era stato costruito dagli uomini della famiglia). Oltre al grano, altro elemento cardine della cultura contadina milocchese erano proprio il gesso e la carcara (una specie di fucina posticcia), particolare procedimento utilizzato per la lavorazione di questo elemento da utilizzare nella costruzione, a rappresentare un altro pezzo pregiato in questo arredo etnoantropologico quasi unico.
I forni a cupola erano rivestiti all’interno di “ciarmariti” (sostanzialmente le stesse tegole in terracotta con cui si costruivano i tetti delle case). Il processo della “famiatura” consisteva nel riempire il forno di sterpaglie (apparentemente inutili ma, l’esperienza e la parsimonia contadina rispondono al comandamento del non buttare mai nulla perché mai nulla è inutile), bruciarle ed infine, dopo aver ripulito l’interno con un arnese chiamato “scupulu” (una sorta di scopa artigianale costruita con un pezzo di legno al quale veniva applicato un tessuto bagnato per la pulitura del forno), mantenere la temperatura tappando l’ingresso con un coperchio in gesso che veniva rivestito di tessuto oppure si tappavano i contorni dell’apertura con una malta fatta di cenere e acqua.
Il combustibile utilizzato cambiava a seconda del periodo dell’anno, in base alle stagionali potature, o di cosa doveva essere cotto.
Il metodo per capire quando il forno avesse raggiunto la temperatura esatta, cioè quando il forno fosse “calatu” (letteralmente: abbassato. Processo più lungo d’inverno perché il forno era spesso bagnato e quindi non calcolabile con un tempo esatto), era legato al colore assunto dalle “ciarmariti”. Quando il loro colore passava dall’originario rossastro ad un bianco pallido provocato dall’incandescenza dovuta alle alte temperature, il forno era “calatu” e quindi pronto per la cottura: “calava la rosa” (“scendeva la rosa” perché i cocci, apparentemente posizionati casualmente, assumevano la forma di una rosa sembrando tanti piccoli petali incandescenti, di fuoco).
Nulla era mai casuale ma sempre frutto dell’esperienza diventata orami rito. Prima d’infornare, si passava al vero e proprio assemblaggio della ‘mbriulata. Intanto, sempre sullo “scanaturi”, si spianavano i panetti di pasta sino a renderli molto sottili e dandogli una forma allungata; su queste strisce di pasta si disponevano a strati tutti gli ingredienti: prima il composto di cipolle e patate, successivamente qualche pezzettino di olive nere, “li frittuli” crude ed infine una spolverata di pecorino. Queste strisce, adesso ripiene, venivano chiuse, arrotolate a forma di chiocciola ed infornate per circa mezzora. Per quanto riguarda “li frittuli” è doveroso aprire un capitolo a parte. “Li frittuli” erano dei cubetti di grasso di maiale, sostanzialmente l’ultimo degli scarti, che venivano conservate quelle pochissime volte l’anno in cui la famiglia si concedeva, sempre se poteva permetterselo, il raro lusso di mangiare della carne, quasi sempre quella più povera, appunto di maiale. La regola legata al “del maiale non si butta mai niente”, nella parsimonia contadina della comunità milocchese, come detto anche prima, ha un significato ancora più importante e profondo.
La gente era molto legata alla figura del maiale che, nonostante facesse una brutta fine, era una sorta di animale fortunato, del buon augurio e particolarmente legato alla tradizione religiosa. Forte infatti era la devozione dei milocchesi verso Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, dal momento che gli animali erano parte integrante di una comunità tradizionalmente contadina. La festa di Sant’Antonio Abate, più sentita di quella del patrono “ufficiale”, San Giuseppe, era festeggiata ogni anno, e lo è ancora oggi, la seconda domenica di agosto. In inverno, il comitato organizzatore della festa comprava un porcellino (il cosiddetto “purcidduzzu di Sant’Antuni”) che, lasciato libero per le Robbe, veniva nutrito dalla popolazione e, infine, la vigilia della festa veniva ucciso e venduto per pagare i costi dei festeggiamenti.
I milocchesi avevano quindi un legame importante con la figura del maiale, insieme a tutti i significati che si portava dietro, e rappresentava una sorta di collante tra le varie Robbe e i suoi abitanti grazie al suo continuo muoversi tra i villaggi. Tutto il processo di creazione della ‘mbriulata, come le tradizioni e le storie ad esso legate, si tramandano oralmente di generazione in generazione e possono cambiare di famiglia in famiglia. Non esiste, quindi, una versione “unica” e tantomeno una “ufficiale”. Sappiamo solo che era un piatto poverissimo e rappresentava il piatto unico che nella pausa pranzo nutriva il contadino che si trovava nei campi, lontano da casa. Si conservava per diversi giorni, era molto buona anche fredda, aveva un costo bassissimo ed era molto sostanziosa nutrizionalmente.
La Festa di Sant'Antonio Abate
Quando erano pronte si condividevano con tutta la Robba, particolarmente (come accadeva con tutto e come avveniva sempre) si donavano tacitamente a chi aveva più bisogno. Anche questo apparteneva, e ne accresceva bellezza e funzionalità, al sistema-Robba. La comodità, la funzionalità, la bontà, il gusto, l’economicità (bassissimi costi per un prodotto sostanzioso, comodo e di qualità) sono le caratteristiche che ancora oggi rendono la ‘mbriulata motivo di stupore per la gente di passaggio, che ha la fortuna o il caso di assaggiarla.
Insieme al pane scanatu, non è sempre scontato trovarlo nei panifici. Perché? Perché non sono prodotti “da forno” ma prodotti “da casa”! Sono i piatti dell’unione, della convivialità, della famiglia, della comunità, della festa, i prodotti che suggellano profondamente i legami veri. Normalmente i ragazzi si organizzano per andare a mangiare la pizza e anche noi lo facciamo ma, quando è veramente festa, quando davvero ci vogliamo unire per suggellare amicizie, legami, amori noi non “andiamo a mangiare la pizza” ma “facciamo le ‘mbriulate”! Il venerdì prima di ogni Sant’Antonio, l’Ass. ProLoco di Milena organizza La Sagra della Mbriulata.
La danza del pane scanatu
Insieme alle ‘mbriulate, non è sempre scontato trovarlo nei panifici. Perché? Perché non sono prodotti “da forno” ma prodotti “da casa”! Sono i piatti dell’unione, della convivialità, della famiglia, della comunità, della festa, i prodotti che suggellano profondamente i legami veri.
Arnesi necessari alla preparazione del “pane scanatu”:
- sagnaturi (mattarello);
- maidda (recipiente di legno per impastare);
- sbria (arnese particolarissimo per scanare);
- scanaturi (come una specie di tagliere usato per spianare la pasta e modellare i panetti);
- quarto (recipiente per misurare/pesare la farina).
La preparazione del pane scanato avveniva più o meno ogni otto giorni (una volta a settimana in base anche al numero di componenti della famiglia) dalle donne di casa aiutate dai loro mariti, figli e figlie. Il frumento, all’occorrenza, veniva portato al mulino e macinato ed il residuo che rimaneva, la “caniglia” (crusca), si impastava con acqua e veniva dato alle galline.
Il frumento veniva conservato in un particolare granaio: il piano inferiore, dove normalmente vi erano le stalle per gli animali ed in particolare il mulo, prezioso ed imprescindibile per il lavoro nei campi, avevano una forma arrotondata, ad arco. Nel piano superiore si trovava una botola dalla quale si accedeva allo spazio creato da questa particolare forma e dove, grazie al prezioso lavoro dei più piccoli che spesso vi si infilavano completamente nudi, veniva conservato il frumento.
Prima di iniziare ad impastare, la farina si “cirniva” (setacciava) in un setaccio di seta (lu crivu di sita) per togliere le parti grosse della farina (la simulidda). La lavorazione della pasta avveniva nella “maidda” (come un lungo recipiente di legno) e “si scanava” nella “sbria”. Il procedimento della scanatura è una vera e propria danza ritmata, magnifica e dal profondo significato socio-culturale (anche un po’ erotico ma questo nessuno mai ve lo dirà), durante la quale l’uomo si occupa della parte più faticosa mentre la donna lavora di fino la pasta muovendola con le mani e stando attenta a non farsi schiacciare le dita dalla sbria.
Le varie forme venivano fatte sullo scanatore (attrezzo usato anche per spianare la pasta delle ‘mbriulate, la pasta fatta in casa, i buccellati ecc., come una specie di antico tagliere), poste sul letto e coperte con delle coperte di lana per favorirne la lievitazione, più o meno per tre quarti d’ora a seconda della stagione dell’anno e della conseguente temperatura esterna. Le forme potevano variare a seconda della fantasia e dell’abilità. La più semplice è una pagnotta rotonda, segnata nella parte superiore da un lungo solco semicircolare. Alcune delle forme più elaborate, che più o meno sapevano fare tutte sono, il pesce e il pistolone (filoncino). Esistono poi delle particolari forme, dall’importante simbolismo, destinate alla festività di San Giuseppe.
Ogni volta che s’impastava il pane, veniva lasciato un panetto che, la sera prima di farlo nuovamente, veniva impastato con dell’altra farina di modo da farlo diventare più grande (rinnovavano “lu criscenti”). La dimensione variava in base alla quantità di farina che dovevano impastare, misurata in quarti. La nonna Maria, dopo averlo rinnovato, lo metteva in un piatto con un po’ d’olio sotto l’impasto e sopra e lo copriva con una tazza (cicara/lattera).
Pasta fresca: un tesoro trafilato al bronzo
Attraverso il recupero di farine macinate a pietra provenienti da grani siciliani antichi autoctoni e rigorosamente coltivati sul territorio milenese dal progetto Terre di Milena dell’Azienda Agricola Licata e l’utilizzo di un antico trafilatore in bronzo appositamente restaurato, mostreremo ai nostri ospiti come la pasta (brand ormai internazionale ma pragmatico concentrato della nostra antica cultura mediterranea, simbolo di genuinità, non solo gastronomica, ma anche di stile di vita dai forti valori etnoantropologici) veniva realizzata dalle nostre nonne alla maniera originale, facendo assaporare gusti e mostrando procedimenti ormai quasi perduti.
Host in translation
vivi un’esperienza culinaria multiculturale e solidale
Avrai la possibilità di mangiare a casa di famiglie di migranti rifugiate a Milena, di assaporare cibi e farti inebriare da odori provenienti dal Medioriente, dall’Asia Meridionale, dal Nord Africa, dall’Africa Subsahariana o dal Corno d’Africa, nel profondo cuore della Sicilia. Potrai conoscere le loro storie di migrazione e l’accogliente attualità milenese, giocare con i loro bambini e conversare con gli adulti, condividere veri momenti di multiculturalità attraverso una genuina esperienza solidale.